Cerca nel blog

venerdì 23 settembre 2011

L'Ago nel Vetro

L'Ago nel Vetro, raccolta di poesie di Mara David, con quadri di Lamberto Melina. Il libro ha come progetto la raccolta di fondi per sostenere il centro di sclerosi multipla di Brescia, Via della Strada Antica Mantovana, 112

Casa Editrice:  Starrylink  (Collana FlyLine)
Anno: 2011
Prezzo: € 15,00



Introduzione
Nella raccolta ‘L’Ocra e l’Indaco’si è visto come la produzione poetica di Mara David
trovi nel pittore William Fantini importanti punti di contatto, riferimenti al vissuto ed emergenze
esistenziali accumunanti. In questo libro invece la poetessa ha deciso di proporre al pubblico un confronto con l’opera pittorica di Lamberto Melina, che sembra piuttosto ‘ lontano’ dal modo della David di intendere le cose e il mondo. I due autori, attraverso la loro opera, intendono sollecitare l’attenzione dei lettori su idee di senso e di linguaggio differenti, tradotti nella comune volontà di farli intendere artisticamente. La parola di Mara David indaga gli atti, i gesti, gli amori, si fa portatrice di una ricerca situazionale dove alla domanda dell’ “Altro” non c’è risposta certa, l’ineffabile rimane occluso in una indicibilità che rimanda ad un presente ben delimitato in cui fenomenicamente si possono avere dolori o gioire, angosce e momenti di felicità destinati comunque a non durare. Le forme di Lamberto Melina sono invece la traduzione nel simbolico di una possibile ontologia, di un senso quindi certo, di una stretta connessione tra microcosmo e macrocosmo. La polisemia del pittore dice qualcosa dell’ “Oltre” che eternizza l’umano e lo pone in una struttura metafisica.
Sta al fruitore porsi domande, operare confronti, eventualmente effettuare scelte. L’interesse di questo libro è di far vedere, come due autori contemporanei ormai noti, possano portare l’arte a strumento di autentica decidibilità di fronte alla massificazione e superficialità dei modi di pensare e sentire imposti dai moderni mezzi di comunicazione di massa.
Mario Gravano


Frantumare e ricostruire. Nota a “L’ago nel vetro”


   Si nota, nell’ultima raccolta di Mara David “L’ago nel vetro”, uno scatto ritmico e di senso che produce una finta armonia semantica: emerge così l’idea di un mondo in cui agiscono figure note, dati reali, ricordi, la vita nella sua percezione soggettiva in sostanza, che si caricano di energia nascosta, primordiale, appuntendo la rappresentazione poetica e risolvendola in un’inquietudine sottesa, di fondo. Rispetto alla precedente produzione la David matura la convinzione che il dato di fatto sia soltanto un nesso analogico e riveli così giusto una parte della situazione esistenziale, frantumandola quanto più possibile in oggetti-figure potenzialmente instabili.
   Il mio idioma /  ha forma allungata / di giraffa, / movenze gentili, / pasti di foglie tra le labbra - sulla lingua. / Fragile / per il crollo di case intorno / per gli tsunami, i terremoti / e le bocche malefiche / che tagliano la pelle, / sanguina con garbo, / non ha il coraggio delle urla. (da “Il mio idioma”): l’Autrice afferma, e lo fa con piena consapevolezza, che il linguaggio, certamente garbato nella sua matrice fonica, ha il dovere etico di sanguinare in una sorta di limbo silenzioso, strozzato alla radice. Viene quanto meno da pensare a Silvia Plath, a un certo maledettismo di una poesia intesa come antidoto mancato all’autodistruzione, o rivolta all’assuefazione delle “cose gentili” che circondano i confini del percepibile ma restituiscono un percepito tagliente e poco fruibile. Questa scelta, che è comune sentire, accomuna la David a un percorso consolidato della poesia italiana che ha precisi riferimenti in Antonella Anedda e, con diverse sfumature, in Iole Toini, conterranea della David o, tra le nuove voci, Nadia Augustoni.  
    L’intero lavoro, corposo per estensione, e questa è un’ulteriore novità nel percorso di Mara, rappresenta dunque il tentativo di confondere la concretezza degli affetti, la familiarità delle situazioni, la normalità dei ritmi stagionali, degli incontri, e il loro lato oscuro, illeggibile se non all’apparenza, quindi minaccioso. Tale sintesi, però, è sempre messa in discussione e, velatamente, negata.
    Cerco il vero nella luce / la parola precisa / che taglia e rivela (da “L’ago nel vetro”): metapoeticamente l’atteggiamento, quasi una tentazione verrebbe da dire, sembra essere quello di tentare per approssimazione la decifrazione del mondo, forti della certezza che la parola precisa non esiste: la lingua, il suo tessuto osseo, però, diventa, di necessità, finzione, a tal punto che la scrittura evoca una sorta di sconfitta esistenziale comune, un valico insormontabile dove cercare forme espressive più adatte.
   Del resto, gli stessi testi, anche nella loro progettazione a ombrello, con versi spesso ritmicamente appuntiti, altrove ipermetri, tessono una ragnatela di base, che è struttura eccellente per l’idea di uno scacco finale, di un’impossibilità a rivelare: l’esperienza del volo / è solo / un’altra illusione ( da Il precipizio) afferma senza finto stupore la David.
  Cosa, allora, può restituire sicurezza alla dimensione fisica del reale, ovvero ai nostri giorni? Forse un tentativo di appropriarsi degli oggetti, fare di loro un’ancora, un primo livello di fruibilità di ciò che ci circonda? La David si muove con circospezione, verrebbe da dire sospetto (… e siamo andati al mercato /  per vedere la vita. /  In gabbie di polli e conigli /  stava l’incertezza /  e s’agitava arruffandosi /  tra penne e morbide pellicce, /  nel fritto di pesce /  si annidava la filosofia / una strana bollitura dello stesso olio (…)/  da “Il mercato”), quasi ammiccando che non c’è strada da percorrere e tutto si risolve in un’illusione mancata, per prospettive monche, prive di qualcosa: l’impressione decisa è quella di una nausea esistenziale che avvolge in una patina opaca quanto ci circonda, quasi non avesse scampo il soggetto agente e si trasformasse in atto passivo, deluso o disilluso.
   Eppure, forse questa è la novità qualificante del libro, alcune forme stabili persistono nella loro personale purezza, quasi in veste archetipica, e più volte ritornano nella sfera poetica della David: riferimenti stagionali che slittano malinconicamente, figure parentali, quali il padre ( Vorrei pensarlo con un nome raro /  di alga, di fiore o di piccolo legno /… da “Il padre”), o la nonna ( era



vasta e misteriosa quella storia liquida /  tenuta stretta tra il verde prato / e una linea ossuta di case vecchie all’orizzonte/ … da “Al fiume con la nonna”), il persistere incessante della metafora dell’acqua  (Se devi parlare /  fallo a piccole gocce / come quando ti fai cascata piangente / dall’esile ponte (…) da “Discorsi col fiume” .È pura consuetudine questo ascolto parziale  /  questo rintocco d’acqua  /  che inquieta il davanzale (…) da “Sentiamo ancora la pioggia”) più volte presente come elemento di purificazione battesimale, riparatore, o ancora l’apparente fisicità di oggetti d’uso-simbolo, quali le scarpe (Scarpe con tacchi sottili e snelli / che se ne vanno via veloci / in ticchettii acuti / a frastornare il grigio asfalto / che non può mai dormire.(…) da “Scarpe”), le tazzine da caffè (l’amore è solo  / una carezza andata, / una manciata di zucchero / sparpagliata per terra, / un discorso friabile / sgranocchiato a metà / e danza col cucchiaino / -ubriaco di tristezza- / dentro una tazza di caffè (…) da “Dentro una tazza di caffè”) che si ribellano, involontariamente, allo slittamento della realtà in un cono d’ombra.
  Dunque un percorso poetico che è presa d’atto comune di quanto tutto avvenga nonostante noi e, contemporaneamente, una ricerca matura di come esprimere pienamente questa impotenza. Senza certezze, confini, ma con il desiderio di non arrendersi mai, di insistere, fino a far emergere la possibilità di una prospettiva, di una luce lontana, pur nell’impossibilità del linguaggio di dire l’ineffabile, di trasformare in poesia il vuoto. (Oggi /  sono pozzo di fango, / le mani nere stringono / scritture senza senso. Da “Oggi”).
    È questa la linea di sviluppo che, a mio modesto avviso, dovrà cercare d’ora in poi la David: convivere con questo scacco e trovare, di conseguenza, nuove forme espressive più urlate e graffianti, per travolgere, addentare, una realtà che fugge. E provare a domarla.


Ivan Fedeli



Prefazione a L'ago nel vetro

L'arte poetica, l'amore e l'amicizia, gli affetti familiari, il dolore, situazioni umoristiche ma talora tetre, la ricerca del senso sono i temi principali della recente raccolta L'ago nel vetro della poetessa bresciana Mara David.
La riflessione su cosa sia poesia è presente fin dal componimento, eponimo, che apre la raccolta: "Sono ago nel vetro/ trasparente e innocuo/ cerco il vero nella luce/ la parola precisa/ che taglia e rivela […]" che significativamente si conclude con un riferimento al dolore e alla volontà di trovare se stessi e il senso dell'esistere ("Decostruisco il dolore/ per trovare il mio volto"). La lirica Il mio idioma, nel contesto della descrizione della poesia, insiste sulla grazia a livello formale, insidiata e resa fragile dal dolore evocato con i correlativi oggettivi del "crollo di case intorno" degli "tsunami" e dei "terremoti". La mia lira nuda costituisce una dichiarazione d'innocenza a livello scrittorio: orgogliosa consapevolezza di aver trovato una parola "sottile e arguta" atta a svelare "la magia che è puro stupore". Ma, ammonisce la poetessa, la poesia è un dono al quale far ricorso con parsimonia e non artificiosamente (in Discorsi col fiume: "Se devi parlare/ fallo a piccole gocce/ […] Racconta il tuo accordo con le cicale"), le parole vanno "rintracciate" (Rintracciare le parole) senza privarle della loro semplicità (Userò parole semplici) così funzionale alla ricerca del senso profondo ("Userò parole semplici/ per aprire le porte") e non è escluso il rischio del silenzio, né ignota la paura della pagina bianca (Non trovo parole: "La pagina è vuota/ triste, tesa, ansiosa").
L'amore ha molti volti, in genere, e ne L'ago del vetro a volte è sentimento corrisposto e intensamente vissuto (Corpo di uomo, Sentiamo ancora la pioggia!, che ricorda "La splendida, la delirante pioggia" di Vittorio Sereni), altre porta le stimmate di un doloroso, bruciante distacco. Pertanto il lettore si trova di fronte all'"amore rosa dalle molteplici gemme" (Tra poco) o alle scarpe "che sono logore e bucate/ che non hanno più forma/ che fanno male al cuore" (Vai a prendere le scarpe), che sono originale immagine della vita, come nella lirica Scarpe… e di un suo aspetto fondamentale (perché cucite per l'amato).
Innegabilmente il dolore e gli affetti familiari si intrecciano nelle poesie di Mara David: Quando ti osservo (con la postilla "dedicata a mia madre", che non lascia spazio ad equivoci) è la seconda poesia de L'ago nel vetro e costituisce un'amara dichiarazione d'impotenza nei confronti della malattia della persona cara: "Ti lascio e ritorno/ consapevole che anneghi e non posso farci nulla" È da notare questa insopprimibile tensione ad allontanarsi "Ti lascio": viene in mente l'autrice che va al lavoro, ma c'è il sospetto di una "separazione" più interiore che fisica. Dello stesso tenore sono Alzheimer, nella quale il riferimento mitologico al cane Argo che cerca il suo Odisseo si fa realmente struggente, perché il malato è sì un viator, ma talvolta non ritorna in patria (cioè alla salute) trionfante e dominatore degli eventi come il politropo eroe. Alzheimer riprende in maniera sottile Quando ti osservo: lì vi era la consapevolezza, qui la consapevolezza è nascosta ("Forse nel mio sguardo preoccupato/ o nella mia fretta/ quando salutandola/ nascondevo gli occhi/ e fuggivo via"). La poetessa quindi si chiede quasi smarrita Dove va il dolore?, confida di nascondere orgogliosamente i sentimenti più profondi perché rischiano di essere ridotti "a merci da nulla" come "nel lercio mercato/ dove ho perso l'amore".
Molte poesie de L'ago nel vetro, che sempre più si inoltra sui sentieri della memoria, del recupero di una innocenza e sanità originarie ormai smarrite, sono dedicate alla nonna, come Vecchiaia insonne, che evoca una figura piena di fede e di speranza, anche se non del tutto a riparo dalla malattia, come Baci di nonna (quale contrasto con il fango e l'affogare di Quando ti osservo!) o come Giochi al fiume con la nonna (nella quale non manca il riferimento al Mella – il fiume che si è allegoricamente intorbidato in Quando ti osservo?). In Vorrei dire…è presente un dolente riferimento al padre (non a caso la poesia precede Dove va il dolore?, che ricapitola e chiosa i sentimenti generati dai ricordi o dalle riflessioni suscitate dalle persone care).
A smorzare la tensione generata da una lucida, spietata introspezione giungono momenti quasi umoristici come Messaggi al cellulare in cui l'ordinaria banalità di un gesto è nobilitata dall'adynaton ("Smetterò di messaggiare/ quando le farfalle avranno perso le ali") e resa tetra dalla surrealistica personificazione, quasi da disegno animato ("Lo sai … il tuo cellulare potrebbe urlare/ distruggere i suoi tasti/ morderti le dita/ se tu decidessi di fermare le parole").
La poesia, l'amore vissuto o perduto, la sofferenza propria o delle persone care (o propria per le persone care, forse la più lacerante) devono avere un senso. Che prospettiva? si chiede Mara ("Che prospettiva c'era nel vento/ nei baci scanditi sotto tetti inquieti?"), in un componimento che conclude il dittico aperto da Chissà: "Non so se il nostro cielo è permanente, / se nel silenzio in corsa il passo è greve/ oppure come specchio ci rivela/ un'anima leggera e senza rotta". Probabilmente la prospettiva più allettante è quella di Non chiedere, lirica montaliana ed oraziana: "Non chiedere quale abito indosserà la morte […] versa il vino [come nelle Odi I, 9 e I, 11 (vina liques, filtra i vini) di Orazio]  e mangia l'arrosto [come quello della nonna di Baci di nonna?] […] ama con l'intensità di un Dio".
                                                                                                                           Vincenzo Gatti 

Nessun commento:

Posta un commento